giovedì 7 maggio 2015

Tentativi di liberazione? (di Patrizio Pica)

Dato che esiste un blog, perché non parlare delle proprie esperienze (la manifestazione dei MIEI desideri!), siano esse reali o immaginarie, per poterle condividere con gli altri?
Diversi anni fa (nel 1995?), dopo aver rincorso in maniera confusa e affannata il "simpatico" mondo dell'arte, sono inciampato in un paio di idee, interessanti, devo dire.
Partendo dal problema capitale dell'artista, ovvero quello della riconoscibilità, meglio ancora dell'identità, ho tentando di procedere in un percorso di annullamento dell' "individuazione", o magari di ri-soggettivizzazione dell'individuo (artista?) stesso.
Ho cominciato a tappezzare la città di piccoli adesivi con su la scritta "IO".
Non contento, ho realizzato una grande tavola bianca sempre con il fatidico "IO" a caratteri cubitali. Alla base della tavola (appoggiata al muro) una risma di fogli dell' "IO" a disposizione di tutti. La cosa si presta ad interpretazioni ambivalenti (e magari ambigue): tomba dell'ego? pop-dispenser di individualità? devo dire che l'oggetto, una volta esposto, non ha riscosso molto successo... e che comunque il metalinguaggio ci frega sempre!
Il passo successivo, sempre nella ricerca di annullamento dei fattori di autorialità (e quindi di storicizzazione dell'opera), è rimasto solo a livello teorico, cioè nella mia testa.
Un'altra idea riguarda invece il problema tutto interno alla figura istituzionale dell'artista: la rappresentazione della realtà.
L'autismo mi ha sempre incuriosito e affascinato. Immaginando un mondo senza storia, individui con emozioni imprevedibili e repentine, ho pensato all'artista come autistico. Come Filadelfo Anzalone che in una galleria morde con violenza inaudita il polpaccio di un famoso critico. Un artista-uomo, preda di emozioni-azioni incontrollate, fuori dal "mondo", fuori dalla storia, libero da vincoli e identità. Insomma un folle sacro. Ma, fondamentalmente, libero!
Qual è il "falso" per eccellenza, la "pantomima" della realtà? Be', credo sia il teatro.
Le persone, i passanti, possono decidere di trattenersi in questi spazi, partecipare, ignorare... restare a vivere lì...
Allora ho pensato ad un teatro che affermi se stesso e al contempo si neghi. Un teatro ha una scenografia: una piazza quadrata, al centro dei divisori, a mo' di "stanze", tutt'intorno una sorta di ambulacro, un passaggio che permetta di guardare gli spazi chiusi e di entrarci.
All'interno delle stanze degli individui in varie situazioni, come nella realtà: chi cucina, chi legge il giornale, chi litiga, chi lavora, chi guarda il muro in silenzio, chi fa l'amore, chi dorme, chi gioca con i propri figli...


Patrizio Pica

Nessun commento:

Posta un commento